Il gioiello di Belmonte “Gammune”
E’ ricavato dal cuore della coscia di maiali neri di Calabria allevati allo stato semi brado cosparsa di salsa di peperone dolce e lasciata ad asciugare con la brezza del mare Tirreno propria di Belmonte Calabro, comune gastronomicamente conosciuto per i suoi pomodori. Il “Gammune” di Belmonte, tutelato dall’omonimo Consorzio, si è da tempo conquistato un posto di rilievo tra i prodotti di punta della norcineria calabrese.
Assai simile al culatello (qualcuno infatti lo ha definito il “culatello del sud”), e alla spagnola “pata negra”, il salume belmontese deve il suo nome all’adattamento probabilmente dialettale del “jamon” iberico. Il “Gammune”, che da qualche tempo è anche presidio Slow food, ha raccolto consensi e attenzione tra le migliaia di visitatori di Expo Milano 2015.
Le origini di questo salume affondano nelle ottocentesche tradizioni norcine e contadine della regione. Da sempre, del resto, nelle famiglie calabresi si allevavano uno o due maiali per costituire una riserva di carne, e non solo. Un ritorno all’antico che, nel nome di questo salume, si è realizzato di pari passo con il recupero e il rilancio della razza autoctona del suino nero di Calabria il cui grasso è caratterizzato dalla presenza molto salutare di omega 3 e 6. I suini neri, infatti, sono allevati anche adesso in boschi ricchi di faggi, castagni e querce, all’interno di piccoli recinti, e si nutrono di ghiande, tuberi, castagne, cereali locali e ortaggi. La preparazione del “Gammune” avviene disossando la coscia del suino nero, stando molto attenti a non intaccare la carne e i nervi e preservando anche uno strato di grasso alto due dita intorno alla coscia. Il ricavato viene poi salato e aromatizzato con la salsa di peperone, una tradizione ancora molto diffusa tra le massaie calabresi. Utilizzando la vescica del suino o le pleure distaccate dal grasso, infine, si ottiene così una sacca che facilita la stagionatura sublimata dal clima e dalla brezza che sale dal mare. Il peso del “Gammune”, che viene stagionato per almeno 16 mesi, varia dai due ai tre chili e mezzo.
“Un prodotto di nicchia – spiega il presidente del Consorzio, Mario Arlia – sicuramente da tutelare e valorizzare e che può meritoriamente fregiarsi del titolo di ambasciatore della cucina tradizionale calabrese”